Episodio 02: l’adultera.
Tu sei buono e ti tirano le pietre
Sei cattivo e ti tirano le pietre
[…] Qualunque cosa fai, capire tu non puoi
se è bene o male quello che tu fai.
(Gian Pieretti e Ricky Gianco, 1967)
Spero mi perdonerete questa citazione non dotta, dal momento che le pietre sono in un certo senso le ‘attesissime’ co-protagoniste del brano evangelico dell’adultera destinata alla lapidazione; co-protagoniste che, grazie a Gesù, rimarranno ‘dietro le quinte’.
Anche questa volta, cerchiamo di entrare nel COME Gesù si è mosso in questa situazione, osservando il suo insegnamento da una prospettiva un po’ diversa. Dal Discorso della Montagna nel Vangelo di Matteo della scorsa volta, passiamo oggi al Vangelo di Giovanni, capitolo 8.
Chi porta la donna davanti a Gesù, gli pone una domanda:
“Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora, Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”.
Già dentro la proposizione si avverte un disprezzo profondo: “donne come questa”, donne peccatrici nel midollo, quindi impossibili da salvare. Oltre al disprezzo, la chiusura a una speranza di redenzione.
Gesù, ancora questa volta si rivela un maestro di comunicazione non verbale.
Cosa fa?
Primo: non risponde.
Secondo: si china, cioè si abbassa.
Terzo: non si mette a discutere con gli scribi e farisei su chi ha ragione e chi ha torto, non la mette su questo piano ragione/torto, ma su quello della responsabilità personale:
“Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”.
Quando ci sono degli incontri di coppia o di gruppo, perché le cose non funzionano nella relazione, uno dei primi passaggi da sviluppare nel tempo, uno dei primi punti da raggiungere, è finirla di discutere su chi ha ragione e chi ha torto: la ricerca della ragione e del torto, a livello di relazione, conduce allo scontro e alla soppressione – fisica o psicologica o di altra natura – dell’altra persona, di chi si ritiene abbia torto.
Ora, è chiaro che in alcune questioni tecniche, questo tipo di ragionamento, ci può stare, è corretto: per far accendere la lampadina, i fili della corrente vanno collegati nel modo giusto e non sbagliato, altrimenti rischiamo di fare danni.
Ma a livello di scelte personali nella relazione, il discorso ragione/torto rischia di essere profondamente fuorviante e foriero di conflitti non indifferenti anche perché ciascuno, dal proprio punto di vista, crede di avere ragione. Bisognerebbe mettersi d’accordo su quelle che sono le basi comuni e, da lì, dedurre se un atteggiamento è meglio di un altro. Oltretutto, spesso la vita conduce verso scelte non volute, ‘obbligate’: non credo che la donna fosse contenta di essere adultera. A volte le scelte si fanno perché non c’è un’altra strada.
Gesù quindi chiama quegli uomini alla responsabilità, li invita a riflettere sulla condizione: giudicatevi voi stessi, se foste nella sua situazione, o anche nella vostra situazione, non meritereste niente? Li invita a mettersi in gioco, in prima persona.
Quando tutti se ne vanno, rimane la donna con Gesù.
E qui Gesù mostra chiaramente cosa vuol dire “non giudicare”.
Teniamo presente che, se una persona vuole cambiare, se desidera cambiare tratti del proprio comportamento che non le piacciono, deve innanzitutto non giudicarsi e accettarsi com’è.
Come diceva Carl Rogers – che nel secolo scorso fu pioniere dell’innovazione psicoterapeutica basata sulla psicologia umanistica – con una frase cui sono particolarmente legato e tengo incorniciata nel mio studio,
“Il curioso paradosso è che quando mi accetto così come sono, allora posso cambiare.”
Gesù accetta questa donna, così com’è.
“Neanch’io ti condanno. Va’ e d’ora in poi non peccare più”.
Le restituisce la sua dignità:
“neanch’io ti condanno”.
Le restituisce la sua libertà :
“ va’ “.
E alla fine la invita – non obbliga – a fare scelte di vita che la aiutino ad essere più felice:
“e d’ora in poi non peccare più”.
Attenzione, anche l’ordine in cui dice queste cose è fondamentale: prima restituisce, poi invita.
Se avesse detto “Non peccare più, vai, neanche io ti condanno”, avrebbe subordinato la non-condanna, il non-giudizio, all’azione della donna di non peccare. E invece Gesù fa il contrario: neanch’io ti condanno, ti restituisco la tua libertà, mettila in gioco per non peccare più.
Quante volte noi, nei nostri discorsi e ragionamenti, subordiniamo una nostra concessione a qualcun altro dopo che lui ha fatto qualcosa?
Non va bene “sei un bravo bambino SE fai i compiti”, ma “poiché sei un bravo bambino, impègnati a fare i compiti”. Diverso è dire “Dopo che hai fatto i compiti, guarderai la televisione”: c’è giustamente un ordine nelle cose, non tutto è uguale. Ma il bambino è bravo, a prescindere dal fatto che faccia o meno i compiti: non è il fare o non fare i compiti che cambia la sua natura.
Ho aperto con le pietre, pietre della condanna che fanno male, pietre del giudizio pesanti da portare. Concludo con due frasi che vanno nella direzione di alleggerire da questo peso:
“Chi sono io per giudicare?”
Papa Francesco“ [Grande Spirito, aiutami a] non giudicare un’altra persona prima di aver camminato per due lune nei suoi mocassini”
Preghiera/proverbio dei nativi americani
E il fatto che, sui rischi insiti nel giudicare, si trovino concordi diverse tradizioni sapienziali distanti tra loro, credo possa essere anch’esso un segno di speranza, come quella che Gesù ha dato alla donna e a ogni persona.
Arrivederci al prossimo episodio.
Dario